Itinerario Extraurbano

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Il Battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte – Il castello medievale – Il santuario di San Michele Arcangelo

 

Il Battistero di San Giovanni

In contrada Fonti, nel territorio di Padula, è il monumento cristiano più antico e illustre del Vallo di Diano e della Diocesi di Teggiano-Policastro. Com’è noto, di esso diede una prima notizia Cassiodoro nel VI secolo, quando lo descrisse in relazione alla fiera di San Cipriano, che annualmente, si svolgeva a Marcellianum, sobborgo dell’antica città romana di Cosilinum. Con una simbolica riproposizione di quanto il Battista aveva compiuto nel fiume Giordano, in quell’antico tempio si amministrava il battesimo con l’immersione dei fedeli in una vasca lustrale, alimentata con l’acqua di una sorgente che vi sgorgava. L’edificio sacro presentava originariamente una struttura essenziale, composta da un corpo di quattro arcate che copriva con una cupola la vasca quadrangolare, a sua volta circondato da ambulacri su tre lati. Il battistero, sorto su di una preesistente struttura pagana – Cassiodoro fornisce l’indizio d’un più antico culto della ninfa Leucothèa –, fu al centro di un’attiva evangelizzazione delle circostanti contrade, svolta grazie alla Diocesi che a Marcellianum sembra essere stata istituita intorno agli inizi del IV secolo dal papa Marcello. Vari interventi di restauro eseguiti in tempi diversi hanno arginato lo stato di deterioramento delle antiche strutture del battistero, meglio noto col titolo di San Giovanni in Fonte; recentemente è stata altresì estesa la superficie destinata alle attività di studio e sono tuttora in corso saggi archeologici dai quali sono emersi nuovi elementi che contribuiranno a rinnovare l’interesse degli studiosi. L’edificio ora presenta una struttura ben diversa da quella paleocristiana, essendo state apportate varie trasformazioni in età medievale e moderna. Al suo interno, negli angoli della vasca lustrale, fino a qualche anno addietro si conservavano quattro lembi d’affresco, raffiguranti i volti degli Evangelisti. Le pitture – distaccate e messe al riparo dalla competente Soprintendenza – sono databili tra il VI e gl’inizi del VII secolo. A una epoca più tarda, fra l’XI e il XII secolo, appartengono invece gli affreschi ancora in parte visibili sulla parete occidentale della cappella, raffiguranti forse Santi Vescovi o Gerarchi della Chiesa. La decorazione sotto l’arco della semidistrutta abside potrebbe documentare invece una fase intermedia. 

Il castello medievale

A partire da Piazza Umberto primo, risalendo lungo le vie Grammatico e Costantino Gatta, la cosiddetta la Valle, inizia il percorso montano, che conduce al castello attraverso i ruderi degli antichi Casalini, quartiere abbandonato corrispondente all’espansione medievale dell’abitato. Il sentiero, percorribile solamente a piedi, aggira ad oriente in un’angusta gola la montagna, sul picco della quale s’erge l’antica rocca. La tradizione vuole che sia stato costruito da Roberto il Guiscardo, dopo la sua conquista di Salerno e del Principato nel 1076. È tuttavia verosimile che il suo impianto originario sia precedente all’età normanna. Nel 1230, nel periodo svevo del Regno di Sicilia, il castello registrò interventi di manutenzione e di potenziamento per volontà di Federico secondo; nel 1246 il medesimo sovrano lo assediò, per riportare all’ordine il ribelle barone Sanseverino, nel cui feudo Sala era compresa. Probabilmente riparato e potenziato in età angioina ed aragonese, il castello fu distrutto nel 1497 dagli stessi Aragonesi, che esiliarono infine l’insorto Antonello Sanseverino, confiscandone il feudo. Nell’antica fortezza – diruta, e abbandonata poi nel corso di tutta l’età moderna – fu eretta la chiesa della Madonna della Consolazione o di Castello: la popolazione vi si reca processionalmente la domenica successiva al 12 settembre e il lunedì in Albis. Nel Santuario mariano si deve segnalare la presenza d’una tela, settecentesco rifacimento di una più antica opera raffigurante la Madonna e il Bambino, ad un lato dei quali è un ignoto personaggio in abiti barocchi, raffigurato nell’atto di pregare: la tradizione popolare vi riconosce il Principe del castello, uno dei Sanseverino, forse Ferrante, cioè l’ultimo barone dell’illustre casato, a cui furono definitivamente confiscati i feudi nel 1550 dal Viceré don Pedro de Toledo. Il castello, rafforzato tutt’intorno da mura e da una serie di torri cilindriche, dominava l’abitato della Sala medievale, controllando anche l’importante via di comunicazione che ne attraversava il territorio, l’antica Consolare che menava dalla capitale del Regno alla Calabria. Al contempo era pure posto a guardia del passo che immetteva nella contigua Valle dell’Agri, nel tenimento di Marsico, sede vescovile e centro della contea dei Sanseverino. Ben si comprendono quindi l’importante funzione strategica che la fortezza ebbe nel corso del Medioevo e la determinazione degli Aragonesi a raderla al suolo nel 1497.

Il Santuario di San Michele Arcangelo.

Nel 1715 le cronache cittadine registrarono un fatto che, a quel tempo, fu considerato prodigioso: sul monte Balzata, a poca distanza dall’abitato di Sala, in un’antica cappella dedicata a San Michele, trasudò improvvisamente abbondante liquido da un’immagine sacra dell’Arcangelo che vi era dipinta. Della «miracolosa resudazione» si sparse immediata notizia; l’evento fu ritenuto straordinario, segno inequivocabile del favore e della protezione dell’Arcangelo sulla città e sulla sua popolazione. Sul posto convenne il clero al gran completo; accorsero i decurioni cittadini che, alla presenza di notai, annotarono l’accaduto nel libro dei Parlamenti municipali; sopraggiunse il Vescovo a prendere atto del miracoloso evento e a sancirne autorevolmente la rilevanza religiosa. Da quell’anno ad oggi, la storia di Sala si legò indissolubilmente all’Arcangelo: l’Università cittadina lo elesse Protettore, giubilando il precedente patrono San Biagio; si diede quindi a edificare un grande e moderno santuario intorno alla medievale chiesetta. Sui suoi muri i fedeli, i decurioni di Sala e i vescovi di Capaccio apposero, di volta in volta, varie iscrizioni commemorative. Chi si reca oggi sul Santuario può leggere sulla facciata la memoria del vescovo Carlo Francesco Giocoli, che nel 1720 costruì la cisterna per l’acqua; nel fornice dell’ingresso alla chiesa, a destra della parete, è quella dettata dai prefetti Costantino Gatta e Domenico Giliberti nel 1721, a memoria del miracolo del 1715; al di sotto ne appare un’altra, del 1722, a devozione del procuratore Gaetano Mugnolo e dell’oblato Domenico Tramonte. All’interno della chiesa ve ne sono, infine, altre due, del 1728 e del 1807, contemplanti indulgenze per i pellegrini. Nel 1729 era stata anche fatta fondere una campana, per iniziativa pure di Costantino Gatta e degli altri procuratori Nicola Romano e Gaetano Mugnolo; dal canto suo Pietro Antonio Raimondi, vescovo di Capaccio dal 1741 al ’67, volle offrire un bell’organo a canne, purtroppo rubato anni addietro insieme con altri oggetti d’arte. La chiesa, rifatta dopo il disastroso terremoto del 1857, oggi si presenta con una navata dalla volta a botte, sui lati della quale si aprono quattro cappelle. L’altare – sul quale è collocata una statuetta di San Michele, che la tradizione dice esservi stata portata nei secoli scorsi dal Gargano da contadini salesi che si recavano stagionalmente in Puglia per la mietitura – è delimitato da una balaustrata in pietra locale; alle sue spalle si può ancora vedere e onorare l’antica effigie sacra dell’Arcangelo. A valle, in località Sant’Angelo in Fonte, dove sorgeva il villaggio omonimo, decaduti intorno al XIV secolo a séguito della peste del 1348, è una grotta pure dedicata all’Arcangelo, il cui imbocco fu successivamente inglobato nell’abside della chiesa appartenente a una dipendenza del monastero cistercense di San Bernardo di Padula. Il culto michaelico locale vanta una remota tradizione, alla quale contribuirono da un canto la religiosità orientale, diffusasi nel Medioevo grazie al monachesimo italogreco, e dall’altro la cultura francogermanica, sopraggiunta con la presenza longobarda prima e poi con la dominazione normanna. Al di là del notevole impulso che, a partire dal 1715, il culto michaelico conobbe a Sala, si deve infine ricordare che esso risulta largamente diffuso nel Vallo di Diano, a Teggiano, ad Atena Lucana, a Padula.