«La Sala è una popolazione, che in clima ameno estendesi per lo spazio quasi di un miglio italiano sopra alcuni poggi formati nelle falde dalle straripevoli balze dell’Appennino, che li sovrasta; domina Ella un’amenissima, e fruttifera Campagna oltre modo deliziosa per l’abbondanza di cristallini Fonti, che in copia inaffiano i di lei innumerabili Giardini: ivi non mancano Selve di Olive che producono preziosissimo Olio, e vi è abbondanza di delicati e preziosi Vini, come di Ortaggi, ed ogni spezie di Frutta …».
Così nella prima metà del settecento Costantino Gatta, illustre cittadino ed erudito salese, descriveva la terra natia; la sua attenzione si soffermava a tramandarci quell’immagine che, pur con tutte le trasformazioni subite, a distanza di oltre due secoli, si è in parte conservata. Le balze dell’Appennino e la «fruttifera» campagna, i fonti limpidissimi ed i giardini, gli orti, i pometi … una continuità di tradizioni, di cultura che si è perpetuata da tempi antichi fino ad oggi nell’immagine di un paesaggio non contaminato da eccessive manomissioni del tempo moderno. Ed è ancora l’ambiente a tutt’oggi a fornirci la suggestione per un viaggio nel tempo trascorso e purtroppo anche «perduto», date le distruzioni di tanto materiale documentario durante i secoli addietro.
È, fortunatamente, ancora l’aspetto geografico che ci consente, nonostante tanti disastri naturali come le alluvioni, le frane, i terremoti, di ricostruire l’immagine di una continuità di vita sociale, civile, religiosa che è viva a dispetto degli accidenti naturali.
Edificata in felice e sicura posizione nel Vallo di Diano, in quello che fu un tempo distretto geografico naturale, per la sua originale conformazione, della storica Lucania, la cittadina di Sala vanta origini e testimonianze storiche di notevole interesse. La sua evoluzione è documentata per ampio arco di tempo – dall’età antica al medioevo, da questo sino ai nostri giorni.
I primi insediamenti sono verosimilmente del IX/VIII secolo a.C., come testimonia una vasta necropoli, ricchissima di corredi funerari, alcuni veramente pregevoli per la loro singolarità, che attestano inequivocabilmente la presenza in loco di popolazioni sin da tempi remoti e precedenti alle colonizzazioni greca e romana, che interessarono successivamente la nostra regione. La necropoli, che ricopre una vasta area e si estende lungo la fascia pedemontana delle balze appenniniche per diversi chilometri, ha evidenziato la compresenza dei due riti funerari della cremazione e della incinerazione, praticati da quelle popolazioni, i cui resti sono oggi conservati nel Museo Archeologico Provinciale di Salerno, in quello Nazionale di Pontecagnano, nel Museo della Lucania Occidentale, allocato nella monumentale Certosa della vicina Padula, e nel Museo Archeologico di Sala Consilina, presso il Polo Culturale Cappuccini.
A partire dal II secolo a.C. il Vallo di Diano soggiacque alla colonizzazione romana, come certificano altre testimonianze materiali rinvenutevi in gran copia, mentre intorno al I secolo venivano elevate al rango di municipia cittadine quali Cosilinum ed Atina, cui si riconosce il primato politico e civile in quell’epoca. Una grande strada romana, la Via Annia, collegante Capua con Reggio, attraversò la Valle ed il suo tracciato sorse probabilmente lungo la direttrice, su cui poi si è sviluppato ed espanso l’attuale centro urbano di Sala. L’antica toponomastica, tracce di Terme e materiale epigrafico ispirarono spesso agli eruditi locali suggestive ipotesi in merito a quegli antichi insediamenti, sicché alcuni supposero di individuare nei pressi di Sala un tempio a Giove con la relativa dimora dei Flamines e la città di loro residenza.
Se vero e proprio nucleo urbano vi fu, tuttavia esso andò man mano spopolato, mentre in epoca cristiana andava assumendo importanza notevole un altro borgo poco distante dal luogo, ove attualmente è posta la città: Marcellianum. A metà strada tra Sala e Padula, Marcellianum fu certamente il luogo donde sarebbero venuti i fondatori di Sala, la culla della loro futura cultura e delle tradizioni. Suburbio della romana Cosilinum, il borgo dové la sua importanza al fatto d’essere luogo sacro di grande rilievo; l’illustre Aurelio Flavio Cassiodoro (VI secolo d.C.) lo rendeva degno dell’attenzione di Re Teodorico con una sua lettera, nella quale vi descrisse l’amenità del sito, la purezza delle acque ed una fiera ricca di merci e di genti varie. Era Marcellianum luogo sacro perché vi sorgeva un battistero, unico nella sua originalità, costruito in acqua corrente … Cassiodoro ne rimase ammirato, vedendovi la vasca lustrale, nella quale s’immergevano i catecumeni, ricca di limpide acque sorgive, popolate da sacri pesci, inequivocabile simbolismo del Cristo.
La fondazione di quel borgo e del famoso battistero fu da alcuni fatta risalire a Papa Marcello I (IV sec.), donde il luogo avrebbe preso il nome di Marcelliana, ma la tradizione di un nome pagano legato allo stesso fonte fa anche pensare ad un culto più remoto ed oltremodo antico: Cassiodoro, infatti, descrivendo la fiera che annualmente vi si teneva, la chiamò Leucothea; il riferimento ad un culto pagano di una ninfa delle acque o della stessa dea Diana è semplice a cogliersi nella sua evidenza.
Quel battistero, il cui rudere ancora ci tramanda un’originale, ma ormai fatiscente struttura, nonché tracce di affreschi mirabilissimi, quel borgo di cui non resta che il nome desueto, la diocesi che vi ebbe sede: tutto subì la devastazione e le scorrerie dei Saraceni intorno al IX/X secolo. «E fu in questa lacrimevole circostanza – tramanda un cronista, il Rossi – che que’ cittadini che poterono uscir salvi tra tanta rovina, raggranellandosi poscia sul territorio della loro inabissata città … eressero il piccol borghetto Sala, posto sotto il Castello, prolungantesi colle nuove abitazioni nel sito che nomasi Civita. Ed altri edificarono i villaggi di S. Angelo in Fonte, S. Damiano, S. Nicola e S. Lucia … Derivò Sala – continua il cronista – dalle ruine di Consilina e Marcelliana intorno al IX/X secolo. I suoi abitanti si diedero a fabbricare le loro mura, per difendersi dalle scorrerie dei Saraceni e di altre bande di predatori e allora fu che la borgata di Sala si rese popolata, e si ingrandirono i fabbricati in quel rione Civita e S. Leone, che fa parte dell’attuale città. Essendo divenuta popolosa, la racchiusero in un forte recinto di mura e torri, dal vallone S. Eustachio a quello di Valle Ombrosa, con due porte … delle quali una si chiama Porta Gagliarda o Porta Forte … e l’altra Portello … al cui fianco accora mirasi un rudero di merlo che la protesse».
Altri tuttavia pensano che Sala sia stata fondata da genti longobarde, così come lascia facilmente congetturare il nome medesimo, nonché certa toponomastica diffusa nella zona. Quella stirpe guerriera di certo fu presente per le nostre contrade, popolandole negli anni in cui fioriva il Ducato beneventano e la vicina Salerno, più tardi definita «opulenta», era arricchita da nuove fondazioni, forte delle sue mura, della sua nascente potenza.
I signori longobardi probabilmente diffusero tra la gente del nostro popolo, come altrove anche, il culto religioso e l’accesa devozione per San Michele, principe tra gli Angeli, patrono a tutt’oggi della cittadina che, annualmente, lo festeggia solennemente e con rito singolarissimo il dì del 29 settembre tra grande partecipazione di fedeli e credenti.
Questo culto dell’arcangelo è remoto dunque come è infatti testimoniato da alcuni ruderi di un tempietto vetusto nei pressi di Sala; il luogo e la chiesetta che un tempo vi sorse furono consacrati a San Michele, onde ne presero la denominazione di Sant’Angelo. Ora il tutto è in rovina, ma comunque v’è ancora la grotta, forse cripta sotterranea, come tante d’altronde per il Principe guerriero, ove lo si venerava. L’erudito Costantino Gatta, descrivendola, ne tramandò la notizia «… La gran volta, che è di massiccio, duro e biancheggiante sasso, par che abbia il sostegno da alcuni piedistalli a guisa di Cariatidi, curiosamente lavorati; il pavimento era di marmi ben connessi, ove veggonsi vestigie di molte fabbriche, quali eran forse cappelle con altari, e luoghi a guisa di cori, per salmeggiare, ma essendo stato il tutto rovinato dalla superstiziosa curiosità dei malvagi, ad oggetto di trovarvi segreti tesori, di tali e tante rovine non si può formare perfetto giudicio. E per essere sotterranea, incavata dalla natura nella profondità del monte suddetto, stilla da per tutto copia grande d’acque, e per conseguenza viene ella ad essere umida, orrida e oscura …».
Andati deserti quel luogo e il villaggio che vi sorgeva, la devozione popolare e la fede tuttavia non scemarono negli animi di quelle genti, sicché in luogo poco distante, ai giorni nostri, «su di uno solitario Poggio fra’ Monti dell’Appennino … sta eretto il divoto Tempio consegrato al Glorioso Principe S. Michele, dalla di cui Immagine dipinta in un muro dell’altare fino dall’anno 1715, sovente sgorga il prodigioso liquore, meraviglioso in guarire ogni spezie d’infermità …» (C. Gatta).
Ben presto tuttavia la nuova signoria dei Normanni privò gli ultimi principi longobardi delle nostre terre e come lo spirito mistico di Alfano, vescovo di Salerno, e quello guerriero del Duca Roberto Guiscardo vollero che la nuova mole del Duomo abbellisse quella città, così, pure la nostra gente, spinta dalle nuove circostanze, dall’aumento della popolazione e delle sue ricchezze, si diede alla fondazione di nuove fabbriche civili e sacre, tra cui la chiesa di Santo Eustachio e quella, più grande e ricca di proventi e sostanze, votata a Santo Stefano protomartire. Nonostante i successivi rifacimenti, che ne hanno alterata l’immagine più antica, essa richiama nello schema romanico della struttura il massimo tempio salernitano, che certamente in quegli anni costituì un modello di costruzione indiscusso.
La vita civile, le sue attività, le vicende si accompagnarono così alla fede religiosa, le cui testimonianze monumentali silenziosamente significano quelle lontane vicissitudini, e tuttavia continuano a rivelarne altre, ora in un affresco per caso riportato alla luce, ora nel dimenticato registro delle nascite, dei morti, dei matrimoni, in uno scaffale polveroso dell’archivio parrocchiale.
Ma sono ancora le pietre, mute nella loro durezza, a sussurrarci una mitica storia. «Sul ciglio del colle che sta a cavaliere di Sala esistono gli avanzi dell’antica torreggiante Rocca. Spesse mura di cinta, vestigie di baluardi, di torri vi si veggono di tratto in tratto, e staranno ancora contro le ingiurie del tempo. Consisteva tutta la mole in cinque recinti, tutti forniti di torri rotonde, ne’ quali frammezzavano abitazioni, cisterne e stanze. Vi si osserva un’altissima torre quadrangolare, che serviva per monizione, o ultima ritirata, scorgendovisi capace abitazione. S’entrava in detto Castello da settentrione, per una porta guarnita da farli baluardi». (F. Rossi).
Fu il Castello di Sala, durante la dominazione sveva di Federico II, coinvolto nelle vicende belliche della congiura dei Baroni di Capaccio e di Marsico, nella cui Contea la nostra città fu infeudata alla nobile e potente famiglia dei Sanseverino. Ma Federico ebbe infine ragione dei ribelli, riducendo lo stesso Conte Tommaso Sanseverino alla resa del nostro castello, lasciandolo poi a discrezione dell’esercito vittorioso.
Riedificato dopo questo primo e sanguinoso assedio, rientrato dopo varie vicende in possesso della medesima famiglia, fu di nuovo strumento dell’insubordinazione baronale dei Sanseverino contro l’autorità regia degli Spagnoli, al tempo della dinastia Aragonese (sec. XV). Subì pertanto una ulteriore e feroce rappresaglia, nonostante la sua posizione fosse stata notevolmente fortificata, sicché «… l’esercito reale, dopo l’abbandono del principe, per esemplare castigo, incendiò la città di Sala e Castello, e oltre agli edifizi pubblici e privati, s’incendiarono tutte le scritture ed antiche memorie della città e del castello, che in ultimo fu demolito e ridotto in maniera come attualmente giace». (F. Rossi).
Passata sotto la signoria della Principessa Filomarino e dei suoi tirannici discendenti, la città di Sala, mal sopportando quel gravoso dispotismo, a seguito di rivolta popolare e di procedure legali intentate contro quei signori, riuscì a conquistarsi l’emancipazione dalla soggezione feudale intorno alla seconda metà del ‘500. Già dal 1378 tuttavia essa si governava con i suoi Statuta in Ordinatione Universitatis Hominum Terrae Salae, purtroppo andati smarriti o sottratti per spirito di rapina dall’Archivio comunale; lo stemma – uno scudo con tre torri merlate, sormontato da una corona, tra fronde di quercia e di alloro – ne sanciva l’autonomia e la dignità municipale. «Augurata Civitas Salae ex Baronibus Regia» era il motto che vi si leggeva, di certo rispondente alle aspirazioni della comunità cittadina, alle ricchezze ed alla sua nobiltà. Fu dunque questo prestigio riconosciuto assieme alla salubrità del clima ed alla felice posizione geografica, che spinse nel 1629 il Vescovo Francesco Maria Brancaccio a fissarvi la sede episcopale onde amministrarvi la giurisdizione religiosa per la circoscrizione di Sala e Capaccio. Un nuovo Palazzo fu pertanto edificato per la sede del Vescovo e per un annesso seminario; tuttavia nel 1850 la Diocesi fu trasferita a Teggiano e a Vallo della Lucania, rimanendo Sala così priva di quella autorità.
Sul finire del secolo XVII, la cittadina cominciò ad espandersi maggiormente e già iniziarono ad abbellirla le prime case signorili, superba tra tutte per lo splendido portale quella della nobile famiglia Bove. Quasi una fortezza, la fabbrica di questo palazzo fu edificata in posizione dominante, nel cuore di quel rione Civita, che costituì con S. Leone, il primo nucleo insediativo urbano.
Ma la vera fioritura, ampiamente significata dall’opulenza di nuove costruzioni gentilizie sacre e civili, fu del ‘700, allorché disponibilità finanziarie e ricchezza di ingegno favorirono, alimentandola di nuove linfe, la vita cittadina.
Le famiglie gentilizie, tipica espressione di quella nobiltà terriera del nostro Mezzogiorno, edificarono le proprie dimore, lasciando così segno eloquente di sé per gli anni a venire: nei primi del secolo i Carratù, i Grammatico, gli Acciaro arricchirono la città di veri e propri palazzi, ancor più resi superbi dal gusto e dalle virtù ornamentali di quell’epoca. Testimonianze di quel perduto splendore anche le cappelle gentilizie degli Acciaro e dei Bigotti, che sorsero ricche di marmi policromi e di pregevoli pitture nei pressi di quelle abitazioni.
Ed ancora: fu ristrutturata la vecchia chiesa di S. Eustachio, da tempo ormai degradata nella fabbrica per effetto di antichità; arricchita di pregevoli stucchi, la chiesa di S. Stefano, che si abbellì anche di affreschi firmati da un artista locale, Anselmo Palmieri da Polla, molto attivo e rinomato a quell’epoca. Furono anni di fervore costruttivo e le maestranze locali, giovandosi di quella favorevole opportunità, ebbero modo di perfezionare e qualificare la loro opera ora nel lavorare abilmente la pietra a scalpellatura, ora nel fornire arredi e suppellettile, degni del migliore artigianato.
La Certosa di Padula, in un momento che la vide opulenta per le ampie sostanze amministrate, costruì a Sala una capiente Grància, il cui cortiletto d’accesso si caratterizza per una graziosa loggia; il suo portale di pietra presenta sulla chiave di volta lo stemma dei certosini padulesi: la graticola su cui fu arso e martirizzato San Lorenzo.
Singolarmente significativo fu questo periodo per la nostra città, la cui nobiltà fu illustrata esemplarmente da due studiosi, egregi per dottrina e virtù morali: Costantino Gatta e Alfeno Vairo; entrambi di nobilissimi natali, ci hanno reso eredi di notevoli frutti che il loro sapere produsse. Il primo, cresciuto ed educato in una famiglia in cui la medicina, le scienze giuridiche e storiche erano esercitate con particolare cura e dedizione, si rese benemerito nella professione medica, nonché per i suoi studi storici sulla Lucania, che egli pubblicò in opere a stampa.
Domenico Alfeno Vairo, teologo, dottore in utroque jure, giurista e storico al tempo stesso, fu presso il prestigioso Studio di Pavia professore universitario di chiara fama; per i suoi meriti di scienziato fu acclamato Rettore di quell’Università, mentre intratteneva fitte corrispondenze con le più eminenti intelligenze di quel tempo. Una vasta produzione di opere ci tramanda il suo studio ed il sapere giuridico, che fornirono per il tempo a venire esempio per altri illustri dottori del diritto, che la città vanta: da Diego Gatta a Giuseppe Mezzacapo, da questi ad un altro Principe del Foro, nostro contemporaneo, l’avvocato Alfredo De Marsico.
Una continuità culturale mai interrotta; tradizione di studi, di operosità materiale ed intellettuale garantirono a quegli uomini la fede per la crescita sociale ed il progresso civile delle nostre genti, sicché, quando i fervori rivoluzionari francesi (1789) trasformarono il volto alle cose, e anche i tempi vennero per l’esperienza della Repubblica Partenopea (1799), la città fu compartecipe attiva di quegli eventi, sempre presente in tutte le circostanze.
Ma, accanto agli ideali illuministici del ‘700, caratterizzarono la vita cittadina quelli del Risorgimento nazionale, quando non pochi cittadini subirono le inquisizioni poliziesche e le galere borboniche per aver cospirato segretamente nelle sette carbonare, nelle logge massoniche. Giuseppe Giuliano, Gennaro San Biase, Michelarcangelo Bove, Domenico De Petrinis, futuro Deputato al Parlamento e Cavaliere della Corona, furono i protagonisti dell’epopea risorgimentale e dell’Unità italiana.
Il 5 settembre del 1860 passava vittorioso per Sala con i suoi Mille il Generale Garibaldi, Dittatore dell’Italia liberata dai Borboni. Qui fu ospite nel Palazzo De Petrinis, ove tuttora si scorge una lapide murata, che ricorda con solenne dettato quell’evento importante per la storia locale e quella patria.
Di lì ai giorni nostri altri eventi sarebbero seguiti, nuovi cambiamenti avrebbero mutato le istituzioni, il costume, la mentalità, la nostra vita quotidiana, scuotendo persino quella tipica monotonia, di cui si tinge, a volte compiaciuto a volte insofferente, lo scorrere degli anni in una cittadina di provincia.