Gli statuti

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A partire dai secoli XI e XII gli insediamenti nell’Italia centrosettentrionale presero il nome di comune, mentre nel Mezzogiorno e in Sicilia venivano chiamati Universitas: feudale, se soggetta ad un feudatario; demaniale se dipendeva dalla Corona ed era amministrata da ufficiali regi.

L’Universitas, ossia il centro abitato detto anche Terra, oltre al borgo principale, annoverava anche casali e villaggi contigui (detti villae), appartenenti sul piano civile ad una provincia e su quello ecclesiastico ad una diocesi. Sia l’Universitas che la Terra erano soggette all’amministrazione centrale dello Stato, nella fattispecie al Regno di Napoli, dominato tra XIV e XV secolo dagli Angioini prima, e poi dagli Aragonesi, fino alla costituzione del vicereame di Spagna. Ma il potere centrale, non potendo provvedere ai diversi bisogni delle varie componenti della popolazione, individuò il superamento della molteplicità dell’unità, col dare ampio spazio ad organismi politico-sociali costituiti dalle singole classi dei sudditi, ponendoli alla base della propria legittimità. Pertanto ciascun aggregato umano doveva riunire le proprie forze, indirizzarle verso certi fini, disciplinandole con determinate regole, e dandosi un ordinamento.

La comunità si presentava così sotto diversi profili: dalla composizione etnica, della compagine sociale, della struttura economica, dell’organizzazione politica, della fede religiosa. Dal punto di vista giuridico appariva come società retta da norme essenziali e da esse caratterizzata. Questo ordinamento non era avvertito come uniforme, giacché si riteneva possibile lasciare a quanti vivevano nelle realtà locali di riferimento sufficiente libertà nel deliberare e nell’operare per tutto ciò che li riguardava da vicino.

Le cariche amministrative erano assegnate a uomini eletti dal popolo, intesa non nella accezione attuale, ma come la parte economicamente più attiva ed intellettualmente più evoluta. Solo in questo gruppo si designavano elettori ed eleggibili, come poi è avvenuto fin quasi ai tempi nostri, prima dell’avvento del suffragio universale.

Un forte stimolo all’autonomia locale lo diede il re Roberto d’Angiò (1309-1343), il quale per contrapporre una valida forza popolare allo strapotere del baronaggio, stabilì nuove città demaniali, che oltre agli antichi privilegi ne ottennero molti altri. Queste città demaniali dipendevano direttamente dalla Corona, la quale per incentivare l’interesse popolare per la demanialità, concedeva “Grazie e Privilegi”, la cui raccolta costituiva i Capitoli o gli Statuti. I baroni, per controbilanciare la politica della Corona, cominciarono anch’essi a concedere statuti. Successivamente, un freno allo sviluppo delle autonomie locali si ebbe con gli Aragonesi, i quali dovettero cedere molte terre demaniali ai baroni sempre più turbolenti ed avidi e gravare di pesantissime tasse quelle rimaste indipendenti, tanto da far desiderare il ritorno dell’infeudazione.

In questo contesto vanno collocati gli Statuta et Ordinationes Universitatis Hominum Terrae Salae del 1378 traditi da uno sconosciuto manoscritto cartaceo del secolo XVI, proveniente dalla Certosa di Padula, ora conservato nella biblioteca della Certosa di Serra San Bruno, in Calabria, nel quale erano stati fedelmente ricopiati nell’ottobre 1574 dal presbitero di Sala don Giovanni Aloisio de Otero sulla base di una copia autentica posseduta dal magister Alfonso Bigotto, come ebbe a certificare in base ad una accurata collazione il notaio Lucio Galietto, anche egli concittadino di Sala.

Lo ricorda Pietro Ebner, Sala Consilina sorge «nei pressi dell’antica civitas di Consolinum o Cosilinum, sede di un nucleo longobardo … Federico II concesse il castrum Salae […] in castellenia a Tommaso Sanseverino, padre di Ruggiero al quale venne restituito il castrum Atani, Sala e Dianum. Il castello passò poi sotto il dominio imperiale» e in seguito “residenza signorile nella curtis” fu soggetto ai Sanseverino sino al 1548. (Economia e società nel Cilento medievale, Roma 1979).

La storia di Sala è stata solo parzialmente ricostruita, stante la carenza di fonti dovuta alla dispersione causata da sommosse e repressioni, e particolarmente dalle due distruzioni (1246 e 1497) con relativi incendi del Castello, durante le quali vennero danneggiati e distrutti gli archivi pubblici e privati. Di certo sappiamo che con l’avvento di Carlo d’Angiò lo stato feudale di Marsico con Sala venne restituito a Ruggiero Sanseverino, in riconoscenza dei suoi servizi, e che durante la guerra del Vespro, per la fedeltà dimostrata da Tommaso Sanseverino, Sala fu esentata dalle tasse nel 1295 e nel 1300, con gli altri paesi del feudo.

Già nel sec. XIII il castello e la Civita di Sala avevano guadagnato una posizione di predominio, per la particolare posizione strategica e per l’inaccessibilità dei luoghi. Il paese si sviluppava tra il Vallone Sant’Eustachio e quello di Valle Ombrosa, nella località denominata appunto Civita, intorno a cui, sin dall’età normanna, risultano attestati anche i casali di Sant’Angelo in Fonte, San Damiano, San Nicola e Santa Lucia. Due di essi, San Damiano e Sant’Angelo, vennero dati alla famiglia Valenzano in cambio di uno sparviero da versare annualmente.

Come scrive Antonio Sacco (La Certosa di Padula, Roma 1914), il sec. XIV è da ricordare come uno dei periodi «tra i più tristi per Sala Consilina» perché, a partire dal 1318, la popolazione fu decimata da innumerevoli pestilenze: tutti i villaggi, ad esclusione di San Damiano, si spopolarono soprattutto con la peste del 1348. Dominus loci era Tommaso Sanseverino, quinto conte di Marsico, barone di Sanseverino, Cilento e Lauria, signore di San Giorgio, Sala, Diano e Atena, Gran Connestabile del regno di Sicilia, sino alla morte avvenuta il 27 aprile 1358. Nel luglio 1359 gli succedette il figlio Antonio Sanseverino morto all’età di 55 anni nel 1384. Durante il suo governo, nel 1378, furono emanati gli Statuta di Sala, dai quali si hanno pochi dati demografici: bisogna attendere, infatti, un Liber focorum del 1443 per sapere che la cittadina annoverava 220 famiglie, equivalenti approssimativamente a 1100 abitanti, per lo più contadini, residenti sia nel centro urbano che nei casali di Sant’Angelo in Fonte, San Damiano, San Nicola e Santa Lucia, documentati sin dall’età normanna. Di questi solo i primi due sono esplicitamente menzionati negli Statuta.

I segni della depressione economica e sociale sono confermati sia nel censimento del 1489 che nella prima metà del Cinquecento: nel 1532 i fuochi erano solo 283, pari a circa 1425 abitanti. I Sanseverino dominarono Sala fino al 1548. Ma quando la cittadina nel 1578 fu dichiarata territorio demaniale, gli abitanti rinsaldarono le loro consuetudini, facendo riferimento agli Statuta del 1378 senza nulla aggiungere o togliere, come attesta il presbitero Giovanni Aloisio de Otero, tranne l’inserimento di una tavola sintetica a guisa di indice.

Gli Statuta et Ordinationes di Sala si articolano in 210 capitoli compreso il proemio. In essi si determina innanzitutto l’età per il raggiungimento dei diritti, come premessa essenziale per la costituzione in sede civile e penale. Si passano quindi in rassegna i vari reati, in primo luogo quelli di natura sociale: dall’appropriazione dei beni altrui alle molteplici intromissioni con o senza danno, di notte o di giorno, negli appezzamenti di terreno, negli orti e nei vigneti; dalla raccolta di legna da alberi fruttiferi o infruttiferi allo spiegamento di panni negli orti, nelle vigne o sui tetti; dall’omessa spazzatura delle vie all’utilizzazione degli alberi lungo le strade o nelle vie e piazze cittadine.

Si stabiliscono norme e criteri per i diritti di accesso, di passaggio e di possesso, senza o con i permessi previsti dalle consuetudini, tanto dei cittadini quanto dei forestieri; vengono anche determinate le procedure di accusa e di difesa e le pene da comminare. Rigorosamente disciplinata la requisizione dei beni pignorati. Oltremodo interessanti sono le istruzioni che regolano la materia delle acque, l’uso delle fonti, la pulizia degli acquedotti e l’assoluto divieto di inquinarli con feci ed escrementi di ogni genere, e le regole pertinenti alla conservazione e la nettezza delle strade di Sala e casali e della campagna, nonché delle piazze, fosse, ponti, chiaviche, edifici, etc.

Vengono inoltre precisate le figure preposte a far rispettare le regole e i procedimenti e le pene da adottare nei riguardi dei trasgressori, sia che fossero cittadini o forestieri, adulti o minorenni.

Nella seconda parte di tratta delle terre comuni, dei mulini, del prezzo del pane, dell’elezione dei giudici e dei funzionari, comprese le norme concernenti i loro uffici. Curiosi sono altresì i regolamenti degli spazi civici e/o comuni: dalla raccolta delle immondizie alla pulizia delle strade, dei musi e delle porte pubbliche; dal corretto allevamento e utilizzo del bestiame ai danni provocati dai cani domestici e randagi. Per non dire dell’ingiunzione di adoperare le fibre del lino ricavate dai fusti con la macerazione per alimentare le lampade, in particolare quelle delle ricamatrici, e perfino la disposizione riguardante le concubine dei sacerdoti, le quali dovevano essere soggette alle pene e al pagamento dei tributi al pari delle altre donne.

Rilevanti elementi topografici concernenti il territorio di Sala e del Vallo si leggono in vari punti degli Statuti; ugualmente in essi si fa riferimento alle unità di misura sia dei solidi che dei liquidi e di superficie, che vanno così determinate:

  1. ROTOLVM = kg 0,890997
  2. TVMVLVM = hl 0,555461
  3. TVMVLVM = ha 0,355962

Di esse dovevano farsi garanti i baiuli, responsabili delle cause civili

Da quanto premesso, risulta evidente che gli Statuta et Ordinationes Universitatis Hominum Terrae Salae forniscono nuovi interessanti elementi di alto profilo giuridico ed istituzionale, oltre che storico e demo-antropologico, in grado di illustrare con fedeltà minuziosa la comunità e cui appartengono nel variegato panorama del Mezzogiorno d’Italia tra XIV e XVI secolo.

Estratto da Gli Statuta di Sala del 1378, a cura di Pietro De Leo, Salerno: Laveglia&Carlone 2009, pp.11-22 (Quaderni del Centro Studi e Ricerche del Vallo di Diano «Pietro Laveglia», 7)