L’abbigliamento

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Nel 1769 la nobildonna Caterina Bove, dimorante solitamente a Napoli, subisce la sottrazione dal suo palazzo salese, insieme con altra varia suppellettile, di alcuni capi d’abbigliamento e di tessuti che mostrano tutti i tratti del costume popolare locale: s’evince che donna Catarina, pur compresa nel tenore di vita dell’aristocrazia napoletana, al suo ritorno in paese riprendeva gli «usati panni», a conferma del fatto che nelle nostra comunità una medesima foggia di vestire accomunava donne e uomini d’ogni classe sociale, fin quando il modello culturale vigente prese a dissolversi.

L’abbigliamento salese è documentato iconograficamente dall’Indagine borbonica condotta sulle «vestiture del Regno di Napoli» dal 1783 al ’98, nella seguente maniera: camicia bianca riccamente increspata, a scollo rotondo chiusa da gemelli in filigrana d’oro, corsetto rosso con lunghe maniche staccate del medesimo colore e fissate alla spalla con nastri azzurri, veste turchina con alto bustino gallonato d’argento e lungo grembiule verde con ricami aurei a nido d’ape. Il copricapo bianco a «tovaglia» ritorna nelle testimonianze etnografiche successive.

Ancora all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso Michele Romagnano riproponeva, per averlo visto fare alle anziane nella sua giovinezza, la modalità, ormai perduta altrove nel comprensorio, di piegatura della tuvàglia, che veniva poggiata a metà per il lungo sul capo e rimboccata lateralmente, ripiegandone poi all’indietro il lembo anteriore. L’altra fonte orale, Giorgio Garone, precisa che la «tovaglia» era rimasta appannaggio delle sole campagne ed era divenuta d’uso occasionale «per le uscite eleganti» – la messa solenne di Pasqua o di Natale, una festa di battesimo, un matrimonio, le processioni –, perché richiedeva un particolare sussiego ed era d’impiccio sia nelle faccende domestiche che nei lavori agricoli.

Il costume femminile descritto dal Romagnano – e adoperato ormai soltanto da chi, avanti negli anni e vivendo in vicoli appartati, riusciva a rimaner fedele alla propria tradizione –, prevedeva il corsetto di velluto verde con maniche che, coprendo appena il gomito, risalivano a metà braccio con bordo arrotondato sulla metà esterna e incavato su quella interna, secondo un modello documentato nella parte mediana della Lucania occidentale, da Tramutola in Val d’Agri a Roccagloriosa nel Cilento meridionale. Era indossato su camicie di fine cotone bianco, dalle ampie maniche ricamate sull’omero nella versione elegante, di tela rustica per le incombenze quotidiane. Il corsetto era associato a un’imbottitura posta al di sopra della vita, una sorta di lungo e stretto ‘cuscinetto’ su cui si reggevano le gonne.

A coprire il seno si soleva spesso mettere una scòlla, un fazzoletto da collo di materia e colore scelti liberamente, anche in conformità all’offerta del mercato.

La veste festiva era doppia, la sottana di lana rossa e la gonna marrone, di castoro per le donne eleganti, foderata internamente di raso celeste, come appare anche in una fotografia degli anni Settanta del diciannovesimo secolo, veniva rialzata per metà sul davanti e fissata posteriormente con un bottone. Il grembiule, lungo fin sotto il ginocchio, era in seta damascata nera con minute pieghe orizzontali al lembo inferiore in numero dispari e cinturino a punta rivolta in basso. Delle ampie sottovesti bianche, con pizzi pieghettature e ricami, le statue mariane abbigliate del Settecento conservano un ricco repertorio nelle chiese di Sala.

Per le uscite e soprattutto per le occasioni religiose, in chiesa e nella pompa delle processioni, rigorosamente le donne salesi s’obbligavano a coprire il capo e le spalle con un soprabito che mostrava non più d’un triangolo di viso, di lana pregiata marrone, orlato di seta rosa e spesso con fregio dorato, secondo la funzione e l’agiatezza della donna, quadrato e ripiegato a triangolo; nella foggia più antica fu rettangolare, con fodera colorata.

Non di rado s’adoperava una sorta di belletto (pasta o crema usata per truccarsi), a cui le ragazze più disinvolte facevano ricorso per aumentare le proprie attrattive.

Nel vestito ‘da Pacchiana’ risaltava la camicia bianca, il corsetto (o busto) a vita alta («stile Impero») in seta cruda rossa e galloncino dorato «a punta di Spagna», con chiusura laterale destra di gancetti metallici e profilo superiore bordato di nastro di seta celeste, che seguiva l’incavo del seno, indubbiamente antico, forse addirittura degl’inizi dell’Ottocento. Il particolare disegno non prevedeva l’uso di fazzoletti da collo. Del medesimo tessuto e colore erano le piccole maniche al gomito, guarnite lungo la cucitura esterna da bottoncini di passamaneria dorata.

L’ampia gonna marrone a pieghe, che si ritrova nelle successive versioni, era foderata all’interno da una fascia all’orlo, probabilmente di seta rosa tenue, e si rimboccava sul grembo appuntandola dietro con un bottone rivestito di tessuto e adorno d’una coccarda di nastro in tinta contrastante, arricchito a sua volta di trina dorata, così da mostrare la sottostante sottana di lana rosso mattone.

Il grembiule di seta nera aveva una larga piega a destra e una a sinistra, e due piegoline orizzontali a quattro dita dal bordo inferiore.

Ma già verso il declinare del secolo si radicò un ammodernamento di quel costume, lasciando che solo negli angoli riposti del paese ne sopravvivessero le vestigia sino a memoria d’uomo.

A Sala, come s’è detto, il concorso esterno d’una media borghesia impiegata negli uffici di capoluogo mandamentale portò come tratto evidente l’introduzione di nuove mode, soprattutto ‘sul versante meridionale’, già dal Seicento luogo di nuovo insediamento, la cui gente ostentava una certa raffinatezza.

Fu generalmente dismesso il corpetto, sostituito da una blusa di tessuto variamente colorato, di solito in pesante cotone, con maniche gonfie e chiuse da polsino – come se ne vedono nelle immagini di vita popolare per la gran parte delle città italiane tra Otto e Novecento –, e al di sotto s’adottò un bustino di taglio essenziale, su cui era cucito il «cuscinetto» destinato a sostenere le gonne.

Il costume «a baschina», indossato fino agli anni Sessanta in occasioni di gala, si componeva di una camicia color avorio cupo, quasi nocciola, con un ricamo a ‘nido d’ape’, intramezzato a due serie di tre piegoline (‘riprese’) su ogni spalla, e il colletto ricoperto da un merletto bianco. L’indumento, portato fuori della gonna, aveva la falda posteriore a campana, la ‘baschina’, che dava nome all’intero abito, e un taglio arcuato sul dorso all’attacco con le parti anteriori. Le maniche erano arricciate o pieghettate alla spalla e chiuse da un polsino, anch’esso adorno spesso di merletto o passamaneria di seta o cotone. L’abbottonatura centrale sul davanti era coperta da una finta, che poteva essere rifinita con passamaneria di seta o di cotone. Di sovente vi si sovrapponeva la scòlla – sciarpa di ciniglia, fisciù di velo ricamato o merletto, scialletto di seta damascata con le frange –, il cui sostituto quotidiano era un fazzolettone di mussola di lana scozzese.

Era indossata sopra una gonna ‘a doppia campana’ color mattone scuro, a fitte pieghe stirate a tutta altezza, a sua volta coperta da un grembiule legato posteriormente sulla baschina, di seta nera lungo sotto il ginocchio, con ricami in argento e piccoli fiori in seta col verde predominante. Nella foggia giornaliera poteva essere più lungo e largo.

Completava la vestitura il pristino soprabito rettangolare, con ‘trina dorata’ e fodera viola tenue, in abbinamento col tessuto nero, azzurra col marrone; senza ornamenti era invece quello quotidiano.

Nel corredo femminile, dotato dalle famiglie alle nozze, cominciò a essere introdotto anche uno scialle, in leggero e lucido tessuto di lana con lunghe frange di seta annodate a macramè in svariati intrecci, per lo più nero, ma anche d’un color rame scuro o verde acido, che doveva essere adoperato dalla donna quaranta giorni dopo il parto per entrare di nuovo in chiesa per la rituale purificazione. Negli usi quotidiani divenne poi frequente lo scialle veneziano rettangolare di ciniglia in lana con le frange, turchino, marrone, verde, nero.

La versione più recente del costume femminile era abbastanza diffusa ancora fino agli anni Ottanta nelle campagne e nella periferia alta del paese: la camicetta in cotonina a pallini o a piccoli fiori su fondo preferibilmente turchino o verde aveva un colletto o uno scollo rotondo, maniche strette e piuttosto corte sull’avambraccio, prive di polsino, la gonna saliva ormai a mezza gamba, segnata da gruppi di tre coppie di pieghe «baciate», in lanetta marrone, talvolta grigio scuro, il grembiule in rasatello nero aveva forma rotonda spizzettata a grandi triangoli e tre piegoline angolate a vertice rovesciato iscritte nel semicerchio, il fazzoletto in mussola di lana ocra mostrava su un angolo grandi ricami floreali in tinta a punto pieno e punto erba, sotto la particolare legatura dietro il capo; l’immancabile scòlla e lo scialle con le frange di seta ne completavano l’insieme. Se ne ammiravano la compostezza e il lindore soprattutto in occasione delle festa di San Michele a settembre, per la quale solevano talora provvedere a capi di nuova fattura.

L’abito maschile, dismesso molto prima che dalle donne, era un completo con calzoni corti al ginocchio in velluto o panno nero, in ragione dell’uso e delle condizioni economiche, panciotto di panno marrone e fascia rossa che cingeva la vita. La giacca, con risvolti in velluto, si soleva spesso abbinare in tinta e tessuto diversi. Camicie e calze bianche, con sopraccalze di lana marrone o nera lavorate sul profilo esterno della gamba con motivi romboidali, lo completavano insieme col cappello di feltro nero, tradizionalmente confezionato a Lagonegro.

Al neonato – e questo sino a tempi recentissimi – veniva fatto indossare un camicino di cotone privo di maniche, che poteva anche essere adorno di ricami e costituiva il primo capo dell’abbigliamento, e sopra un altro camiciotto con maniche a tre quarti, per lo più di flanella all’interno; su di esso si ripiegava una coppia di ampi ‘pannolini’ rettangolari, uno di stoffa più pesante, l’altro di cotone, intorno ai quali s’avvolgevano le fasce di picchè. Un’altra fascia più stretta era sistemata intorno alle reni a sostegno della postura. Il capo era protetto con una cuffietta di cotone, ugualmente ricamata a preferenza. In occasione del battesimo si usava tradizionalmente coprire il bambino con uno scialle, pure bianco e con ornamenti di trine. Alla nascita invece era legata intorno al polso o al braccio, oppure fissata alla vestina, una fettuccia nera, dono dei nonni, con una serie di amuleti d’oro: un ‘cornetto’, una ‘lumachina’, un ‘cuoricino’, una ‘manina atteggiata nel gesto delle corna’. Alle bambine erano invece donati gli orecchini.

Cosí pure l’unica veste dei bambini d’entrambi i sessi, prima che raggiungessero l’età puberale e fossero ammessi a indossare l’abito tradizionale nella foggia semplice adatta a quell’età, era una camiciola che ricopriva a malapena le ginocchia, al di sotto della quale si portava un paio di corte brache aperte al cavallo per agevolare le funzioni fisiologiche.

Si badava molto alla pulizia, primo indice di eleganza, e alla compostezza. Le ragazze erano avvezzate ad un portamento impettito, eppure modesto, composto, facendole camminare in casa con un libro sul capo, quand’anche non dovevano trasportare pesi nella medesima posizione; e, affinché in istrada contenessero i movimenti e non fossero indotte a volgere lateralmente lo sguardo, allorché si allestiva la cova, veniva affidato loro qualche uovo da mantenere al caldo in seno, cosí da farlo schiudere contemporaneamente con la chioccia.

Calzavano solitamente, più che le scarpe, pianelle di vacchetta nera a punta («a cuore»), col «mascherino» di pelle, di metallo nella versione festiva, e col mezzo tacco alto circa sei centimetri.

L’acconciatura dei capelli a la salísi, prevedeva una scriminatura centrale dalla quale le donne sposate raccoglievano sulla nuca una doppia treccia, gnetta, che ‘fissavano’ anticamente con nastrini, in séguito con forcine di tartaruga o metalliche, «ferretti», e distribuivano ad anello depresso intorno alla nuca. Le due bande che dalla fronte coprivano le tempie erano increspate o dalla natura o, più spesso, mercé d’un ferro caldo.

La ragazza acconciava invece i capelli in un’unica treccia e la girava a tuppè, dapprima sull’incavo della nuca, in séguito alto sull’occipite, indubbiamente in entrambi i casi secondo un uso di più recente introduzione.