Tra gli usi civici la voce delle campane rilevava – come spesso ancora accade – più d’ogni altro le cadenze gioiose e funeste, le celebrazioni cultuali e secolari.
Le ore canoniche sin dalla prima pratica cristiana, conformemente all’«uso nazionale degli ebrei della triplice preghiera: al mattino, mezzogiorno e sera», mutuata poi dalla comunità apostolica, segnano anche i riferimenti temporali quotidiani della comunità, e furono chiese e conventi coi loro rintocchi a detenere a lungo anche il controllo dei ritmi della vita civile. Il tempo medievale è soprattutto un tempo religioso e clericale.
Ma, se in Europa il «monopolio del tempo» fu sottratto alla Chiesa con l’introduzione delle torri civiche dai governi comunali e viepiù con la collocazione su di esse, a partire dal quattordicesimo secolo, dei primi orologi meccanici, nell’uso locale, anche a Sala che, contrapponendosi dalla metà dell’Ottocento a Teggiano sede vescovile, si configurava come centro d’interessi economici e si diceva addirittura anticlericale, le campane hanno continuato a scandire un tempo eminentemente ecclesiastico, in cui il laico si conforma al chierico. La chiesa, quindi, determina quando ci si alza per iniziare il lavoro dei campi e quando si rientra.
L’importanza che si attribuiva al «dominio del tempo» fece sì che a Sala come altrove, ben oltre l’Età moderna, le chiese gareggiassero fra loro per far prevalere il proprio annunzio sugli altri, dal cui prestigio sociale derivavano anche risvolti economici. Nel Seicento si giunge a codificare le preminenze e l’assetto formale e rituale delle cerimonie sacre.
In quel contesto un’unica voce all’appello civile e religioso era ancora la «campana solita del Capitolo ciò è quella della Terra che stà nel Campanile à canto la Chiesa di Santa Maria della Granne». Accadde però che per «effetto di antichità (31 ottobre 1782) si adeguò al suolo il campanile di S. Maria La Grande, ov’era locata la campana municipale, che suonava solamente per convocare il parlamento ut moris est, nella pubblica piazza, avanti la Casa di Corte, e da quell’anno cessò l’uso del suono della campana, e s’introdusse la consuetudine del bando, per chiamare i cittadini a pubblico parlamento».
La cappella dell’Università era sì provvista, per le esigenze esclusivamente naturali, d’un orologio meccanico, con quadrante in maiolica policroma tardobarocca e le dodici ore indicate in cifra romana, ma non dové passare molto perché il Municipio stesso si dotasse finalmente d’un orologio adeguato: nel 1847 è deliberata una «gratifica al Regolatore dell’orologio», cioè a colui che provvedeva al suo funzionamento, e già nel 1849 «la machina del pubblico orologio abbisogna di urgenti accomodi, come ognuno sà».
Nel 1880 viene commissionato un nuovo orologio civico. «A completare la fabbrica del palazzo municipale è sorta la necessità di fissarvi sull’attico un conveniente orologio alla Francese. Sonosi fatte pratiche con un bravo meccanico di Napoli stabilendo i seguenti patti. 1 L’orologio sarà del gran calibro designato nel manifesto a stampa al N.° 1 atto a suonar le ore in ogni quarto di 12 in 12 e riportare le ore in ogni quarto sulle campane esistenti nell’attuale orologio. 2 Detta macchina dovrà indicare le ore ed i minuti con un quadrante di cristallo del diametro di m. 1,36 e spessore 00,29, e sarà esattamente identica a quella che costruiva Barnard ed avrà un’ossatura ossia rettangolo di ferro lungo m. 1,36 largo 0,45»
Tuttavia le campane comunali collegate con l’orologio segneranno un tempo «assoluto», serviranno a indicare l’«ora» naturale non l’«orario» relativo alle mansioni quotidiane e al rito. Infatti le campane ecclesiastiche prevalsero nella funzione civile ancora una volta alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, quando le campane delle chiese di Sala annunziarono all’unisono l’armistizio invitando la popolazione ad abbandonare i rifugi in montagna e a far ritorno in paese.
Nei giorni feriali la campana suonava il mattutino con dieci rintocchi, alle cinque d’estate e alle sei d’inverno, in qualunque tempo dell’anno, invece, la campana suonava per chiamare alla messa delle sei e quarantacinque; subito dopo la campana piccola suonava a distesa e dopo mezz’ora veniva ripetuto l’avviso, una decina di minuti prima della celebrazione, per dar tempo a qualche ritardatario di prepararsi. Contemporaneamente, le campane delle altre chiese s’univano al concento. Era questo il terzo segnale e solo allora si dava inizio alle funzioni.
Similmente dieci tocchi di campana designavano il mezzogiorno e poi il vespro, che cadeva d’estate verso le otto e d’inverno verso le cinque. Il sabato sera invece, per avvertire dell’imminente festività domenicale, rintoccavano insieme la campanella «feriale» e una campana grande: il sagrestano ne impugnava contemporaneamente i batacchi e suonava a festa, con tocchi ravvicinati. Nelle vigilie delle solennità – l’Immacolata, l’Assunta e le altre ricorrenze mariane di calendario, il Corpus Domini, San Michele di maggio e di settembre – e all’inizio delle novene si suonava a distesa, a festa, a mezzogiorno e a sera.
La domenica per la prima messa, messa piana, l’avviso veniva dato come nei giorni feriali; per la messa cantata invece venivano suonate la campana grande e quella piccola.
La sera del martedì grasso, quando iniziava la Quaresima al suono a distesa della campana piccola, intrecciato alla campana grande suonata «un po’ svelta» con un ritmo giambico, si diceva scherzosamente mu sòna a bbruócculi, ‘ora suona a broccoli’, volendo così denotare la sequenza particolare dei rintocchi della prima; ma vi era pure un implicito richiamo all’alimentazione prevalentemente vegetale che sarebbe seguita al Carnevale. La medesima cadenza si ripeteva il sabato sera e la vigilia delle feste che cadevano in questo tempo penitenziale, come San Giuseppe e l’Annunziata.
Per annunziare alla comunità la dipartita d’un suo membro, allorquando non esistevano ancora i manifesti funebri, un familiare, appena il congiunto aveva esalato l’ultimo respiro, si recava presso la propria parrocchia a dare notizia dell’evento, che di seguito poteva vedere la partecipazione del clero parrocchiale o di tutto il clero cittadino. La chiesa d’appartenenza e le altre chiese suonavano le campane ad intermittenza per alcuni minuti secondo precise cadenze ritmiche, fino al momento stabilito per le esequie. Alla chiesa veniva ovviamente corrisposto un tributo dai familiari, per ‘il diritto al suono delle campane’. All’uscita dalla chiesa del corteo funebre suonava a distesa la campana di Sant’Antonio, detta anche ‘campana del Capitolo’, ‘che chiamava a raccolta il presbiterio’. Quindi, i preti, preceduti dalla croce e da un chierico munito di acqua benedetta, si recavano in processione presso l’estinto ‘al suono delle campane a morto’, per la benedizione. Compiuto il rito, ritornavano in chiesa con la salma; a conclusione del servizio funebre l’accompagnavano, assieme al suono delle campane, sulla via del camposanto.
Sia nel tempo feriale che festivo, d’estate, alle sette di sera, d’inverno, alle cinque, si battevano trentatré rintocchi per indicare il momento in cui avveniva l’ostensione del Sacramento. Anche chi si trovava per via, soprattutto chi al tramonto rientrava dalle campagne, si inginocchiava, si segnava e recitava la preghiera al Santissimo Sacramento. Durante l’esposizione del Santissimo si soleva suonare un rintocco prolungato, ogni quarto d’ora.
Quando si portava il viatico a un ammalato si suonava una campana a rintocchi ravvicinati. Dalla chiesa usciva il prete con la pisside coperta, accompagnato da un chierichetto che, reggendo l’ombrellino processionale, scampanellava freneticamente. La gente del quartiere si riversava prontamente in istrada per far corteggio al Sacramento, inginocchiandosi, segnandosi e cantando, senza però tralasciare di coprire il capo col primo indumento che veniva per mano. Si scortava il Santissimo fino a casa dell’infermo, lo si attendeva sulla soglia e lo si riaccompagnava in chiesa.