La cultura materiale

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La rivoluzione industriale ha trasformato nelle sue varie fasi temporali, ma radicalmente e rapidamente negli ultimi decenni, gli oggetti della vita quotidiana tradizionale di uso a volte millenario, con le debite connessioni nei comportamenti. Le ultime generazioni immaginano che gli oggetti di uso comune oggi in casa ci siano sempre stati, a Sala, come negli altri paesi. Chi ha memoria della vita com’era appena qualche generazione fa si rende conto invece dei cambiamenti profondi che si sono verificati: la maggior parte di quegli oggetti non erano di fabbricazione industriale, ma uscivano dalle botteghe artigiane o dalle mani di una persona della famiglia.

Senza la pretesa di esaustività, si possono fare non pochi esempi, incominciando dal rapporto con gli elementi fondamentali della natura come l’acqua e il fuoco. L’acqua, non essendo in tutte le case come oggi, richiedeva alcuni recipienti e alcune specifiche abilità per costruirli. Lu varlíri (il barile), che serviva per andare ad attingerne alla sorgente o alla fontana una provvista temporanea, era confezionato da uno specifico artigiano, lu varlicchjàru (il barilaio), che costruiva anche lu varlicchjéddu (il barilotto), la vutti (la botte), la tina (il tino) per il vino e la ghalètta (il boccale di legno); cosí pure le misure per le derrate agricole: túmminu (tomolo), minźèttu (mezzo tomolo), stuppiéddu (ottava parte del tomolo); ma c’erano anche quelli di ferro, costruiti ovviamente dal fabbro. E cosí lu catu (secchio), che si utilizzava per i liquidi, usciva dalla bottega del varlicchjàru, se di legno, da quella dello stagnàru, se di latta. Per conservare al fresco l’acqua da bere, si usava la cúcuma (cuccuma); per quella che si metteva ngòppa a la bbuffètta (sulla tavola) si usava la ciàrla o l’arzúlu, fabbricati dal vasaio, e da cui si beveva direttamente, facendo a meno dei bicchieri.

Quando non c’era la cucina a gas o elettrica, i cibi si cuocevano sul fuoco del caminetto (o sulla cucina a carboni nelle case piú agiate): per i fagioli s’adoperava spesso una pignàta ri crita (pentola di terracotta) che crucculàva (borbottava) accanto alla brace, come pure lu tijànu, anch’esso opera del vasaio (il tegame dove veniva fatto cuocere a lungo lu bbròru, il ragú). Il caminetto era il posto presso il quale si riuniva la famiglia, luogo privilegiato per educare le nuove generazioni attraverso i cundi (favole e racconti di vita). Il fuoco era considerato piú importante del pane: era diffuso il wellerismo Chi avívu fuócu cambàvu;/ chi avívu pani murívu (chi ebbe fuoco visse;/ chi ebbe pane morí). C’era, – ma non tutti lo possedevano –, lu jatatúri o sciusciatúri (il soffietto), per la fabbricazione del quale occorreva il fabbro: chi non l’aveva sciusciàva (soffiava) direttamente con la bocca. Una figura che a volte si fondeva con lo stagnàru era quella del cauraràru (calderaio), che provvedeva ai recipienti di rame: la cauràra (caldaia), e lu caurungiéddu (caldaietta), utilizzati in cucina, e che con altri meno essenziali facevano bella mostra nella batteria esposti sull’appiénniràma, espressione di condizione agiata nella dote di una sposa; a volte lu cauraràru girava per le strade del paese, gridando: «Lu cauraràru!» Era generalmente lui che sapeva stagnà (stagnare) i recipienti di rame. La lavatrice elettrica ha sostituito lu lavatúri (il lavatoio) di legno, manufatto del falegname. La pasta accattàta (comprata), di produzione industriale, ha eliminato nelle case svincolate dalla tradizione, lu quatru (spianatoia) col relativo laghanatúri (matterello). Tanti erano gli oggetti prodotti dallo stagnàru: lu lumi o lucícchja, lume di latta ccu lu lucígnu (stoppino), la landèrna (lanterna) d’uso domestico e quella particolare dei carretti.

I mobili di casa non provenivano dalle fabbriche, ma bisognava ordinarli per tempo al falegname di questa o quella bottega, se si aveva bisogno della bbuffètta, della cristalliera, del comò e dell’armadio, li cculunnètti (comodini), arredi delle case piuttosto agiate. Per il letto si ricorreva di solito al firràru (‘fabbro’), che costruiva i piéri ri staddi (cavalletti) sui quali si disponevano li ttàvuli (assi di legno), nonché li spallèri (testiere), a capo e a piedi; era lui che faceva persino i chiodi, chjuóvi ri fòrgia, li scibbi (i cardini degl’infissi), li mmašcatúri (serrature) e persino le chiavi; materassi e cuscini si confezionavano di solito in casa, riempiendoli di lana fornita dal pastore o di sfògli (brattee del granturco).

Lu spusalíźźïu (la cerimonia nuziale), dopo la messa, si celebrava in casa della sposa, dove si preparavano, non di rado nel forno a legna della medesima casa, taralli e panini (imbottiti di caciocavallo e salame casereccio). Un forno per la distribuzione e la vendita del pane era di solito in ogni rione. Gli abiti erano confezionati dal sarto per l’uomo e dalla sarta per la donna. Per le scarpe nuove si ricorreva allo scarpàru (calzolaio), considerato mastru (maestro artigiano); per eventuali rattoppi c’era lu sòlachjaniéddi (il ciabattino).

Facevano parte dell’arredo domestico le sedie, di solito impagliate: di tanto in tanto passava per le strade lu mbagliasèggi, che provvedeva a rifarne la seduta consunta o sfondata. Altre figure di mestieri girovaghi erano quelle dello mbrillàru o accunźambrèlli, che riparava gli ombrelli rotti, del tartaràru, che raccoglieva il tartaro delle botti per ricavarne il tannino usato nella concia delle pelli, lu saracàru, venditore di salacche, di alici (acciughe) e della curallína (alga vermifuga), lu pizzàru o piattàru, che raccoglieva in un sacco anticaglie e roba smessa, per lo piú zínźuli (cenci), in cambio di utensíli da cucina come piatti, tazze e brocche di vetro, che recava in una grossa spòrta (cesta), le venditrici di aríghana (origano) a mazzetti o di prodotti agricoli, portati sulla testa nd’a na canístra (in un cesto).

Per il trasporto delle merci prevalentemente agricole le donne che si recavano in campagna o a vendere i prodotti agricoli per il paese o al mercato adoperavano la canístra (cesta di vimini) da posare sul capo, che proteggevano con la spara (cercine) fatta da loro stesse con un tessuto di scarto. Solo le donne seguivano l’antichissimo uso di recare pesi sul capo, per gli uomini era ritenuto addirittura disdicevole, segno d’effeminatezza. La varda (il basto) e i finimenti di pelle per l’animale da soma erano confezionati rispettivamente dal vardàru e dal ghuarnamindàru (sellai); la ghuàra (corbello di salice) era fatta da persone non proprio specializzate, ma abili nell’intrecciare i rami; la zuca, la fune usata per guidare l’animale o per legare la soma, era prodotta da lu zucàru (il funaio): il termine è rimasto nel soprannome paesano la Zucàra. Per costruire il carro, il carretto o il calesse si ricorreva al galesaro, com’era denominato nei documenti d’archivio del Comune di Sala, detto piú comunemente carrísi.

I bambini nascevano in casa: si preparava per tempo, tutto realizzato a mano, la naca per cullarli e il corredino, lu cammisiéddu (il camicino, casomai ricamato), la scúffia (la cuffietta), li ffassi (le fasce), lu fasciatúri (il pannolino).

Per lu tavútu (la bara) si rivolgevano al falegname, che doveva apprestarla al momento, magari lavorando di notte.

La macellazione annuale di uno o piú maiali o di animali da cortile avveniva in casa; la preparazione, per il maiale, cominciava una settimana prima: si pestavano, dopo averli infornati, i peperoni secchi nel murtàli, detto anche pisasàli (mortaio) di pietra col pisatúri (pestello), per ricavarne la púrivi (paprica), che serviva a condire il salame, e per ridurre in povere il sale, che si comprava in pietre; per il sanguinaccio si provvedeva al cacao, allo zucchero e ai pinoli, li pignuóli.

Per macinare il grano o suoi succedanei, c’era il mulinàru (mugnaio); per macinare le olive e ricavare l’olio, si andava al trappítu (frantoio), la cui macina di pietra, azionata da un asse, veniva fatto girare da un equino; lu nnuzzu (la sansa) veniva messo nei físciuli sotto una pressa anticamente di legno; l’operatore era detto trappitàru (frantoiano). Per i latticini i produttori di latte lo conferivano al casiéri (caseificio tradizionale); i pastori cagliavano sul posto nel càccavu (paiolo). Questi ultimi si rivolgevano a lu firràru per i campanelli degli ovini e i campanacci delle vacche al pascolo, mentre costruivano essi stessi cucchiai di legno, a volte anche intagliati con decorazioni.

Molte erano le case dove le donne filavano la lana col fuso e la lavoravano coi ferri, per fare, ad uso proprio o di altri, calze, maglie, mantelli, coperte; tutt’altro che rari erano pure i telai domestici. In casa si effettuavano anche le tinture di indumenti, per lo piú con estratti naturali; ad esempio per tingere un maccatúru (fazzoletto per la testa) ricavavano il colore marrone dal mallo delle noci.

I bambini giocavano per strada col círchju ri fiérru e la martillína (il cerchio di ferro con la guida, pure di ferro), come già al tempo dei Romani, con li stacci (piccole pietre piatte), li šisci (‘tappi di latta’), li ffurmèlli o ffurmèddi (‘bottoni’), con la ssillítta (‘slitta’) o col carruócciulu (il carrettino, una piccola piattaforma di legno dotata di ruote con un asse girevole, pure di legno e anch’esso fornito di ruote, per la guida), se si riusciva a ottenere i giusti cuscinetti a sfera che servivano al meccanismo; le bambine giocavano invece a la sittimàna (alla campana). La tròccula (raganella), quando si legavano le campane delle chiese in segno di lutto durante la Settimana Santa, era fatta stridere a lungo per le vie del paese dai bambini come gioco, mentre ad annunziare l’inizio delle funzioni liturgiche provvedeva generalmente il sacrestano con la battola, una tavola di legno con impugnatura, munita di maniglie da uscio che producevano il suono.

La produzione industriale ha determinato la chiusura di tante botteghe artigianali, cui ha contribuito la prolungata istruzione superiore, unitamente alle leggi protettive sull’apprendistato, impedendo il ricambio generazionale delle attività artigiane.