Chi ha vissuto gli anni a cavallo tra la Seconda Guerra Mondiale fino a oggi, volgendo lo sguardo indietro, può facilmente osservare quanto i ritmi lenti della vita tradizionale siano cambiati rispetto a quelli convulsi della vita odierna. A scandirli era il suono delle campane, nel corso della giornata, da mattutino al vespro, e nel corso dell’anno, quando il suono della penitenza si distingueva nettamente da quello a gloria della festa.
Le auto del paese si contavano ancora sulla punta delle dita e i bambini potevano socializzare giocando tranquillamente nelle strade, attraversate per lo più di prima mattina e a sera dagli asini (ora del tutto scomparsi) e di tanto in tanto da qualche carro tirato dai buoi; le donne portavano in testa la cesta coi prodotti della campagna o il barile di acqua, che si recavano a prendere quasi tutte alla fontana (pochissime famiglie avevano l’acqua in casa e non a tutte le ore del giorno e nemmeno il bagno, per insufficienza di fogne). Frequente era anche il passaggio di fasci di legna o sàrcini ri frascèddi (fascine di rami secchi) in testa alle donne o sulle spalle degli uomini, che scendevano dalla montagna, dove si portavano generalmente prima dell’alba: chi non andava a legna, la comprava e chi la vendeva trovava in questo uno dei tanti modi per tirare a campare.
Non di rado si vedevano per le strade persone che chiedevano l’elemosina in suffragio delle anime dei morti, specialmente alla festa davanti alle chiese. Qualche lutto era in genere presente in tutte le case: la durata media della vita era molto più breve di oggi, perché, fino all’avvento degli antibiotici, era ancora molto diffusa la mortalità infantile, alcuni giovani morivano di tisi e per varie malattie non c’erano rimedi. Non c’era la televisione e la radio era ancora un lusso per pochi. Le notizie passavano di bocca in bocca, a cominciare dal vicinato, per strada o nella bottega dell’artigiano e la narrazione dei cundi (favole o racconti di vita) erano forme d’intrattenimento e opportunità per trasmettere valori educativi: d’inverno il luogo privilegiato era accanto al fuoco; d’estate, all’aperto davanti alle case, dove la gente si divertiva a volte con giochi molto semplici come pieripirànni o lu cucuzzàru. L’istruzione superiore era, per lo più, riservata alle classi più agiate e molte delle conoscenze erano affidate alla tradizione orale.
Quelli che arrivavano alla vecchiaia erano selezionati da una speciale resistenza alle malattie e ai disagi della vita. Anche la mortalità diffusa alimentava un rapporto più stretto con l’aldilà e col soprannaturale: molti si affidavano ai santi per chiedere grazie e perdono per i peccati, ritenuti causa di ogni male. Le feste religiose erano l’occasione per esercitare la penitenza, andando scalzi al santuario del Protettore San Michele o in processione per un voto in cambio della guarigione o del ritorno dalla guerra di un congiunto e, alle fermate della statua o del Santissimo, si avvertiva, nel silenzio della solennità, il rumore, misto al pianto, dei colpi delle donne che si battevano il petto.
Quando moriva qualcuno le persone vestivano di nero, interamente (luttu strittu) o con una fascia nera al braccio, a seconda del rapporto di parentela, per mesi o per anni, se non a vita (ppi la miglièri e ppi lu marítu / fignu a cchi DDiu ti rai vita, per la moglie e per il marito finché Dio ti darà vita). L’uomo non si radeva per mesi. Si era soliti piangere a voce alta il defunto, con lamenti rituali che suscitavano talvolta ilarità nei presenti i quali si recavano a porgere le condoglianze. Un pianto che sfociava in grida di disperazione si ascoltava al cimitero, davanti alle tombe dei propri cari il giorno della Commemorazione dei Defunti, specialmente se scomparsi da poco.
Oggi le feste conservano della tradizione soltanto le processioni e la celebrazione delle funzioni religiose come momento comunitario; è rimasta in uso la banda musicale, che accompagna la processione e talvolta esibendosi la sera sulla cassarmonica; da tempi più recenti si dà molta importanza al cantante di fama nazionale. A Sala Consilina alcune feste tradizionali da anni non sono più praticate: per esempio, la Cruci, il 3 maggio, quando gli uomini andavano a stirrà li bbòti (i tornanti) lungo la via per il santuario di San Michele e, coltivato l’uórtu nd’a la panza ri la mundàgna (l’orto a mezza costa), mangiavano e bevevano vino a profusione; ubriachi, portando poi in processione gli alberi (delle lunghe aste, li mmazzi, di pino o abete) attraversavano le vie del paese, per propiziarsi la crescita della vegetazione, mettendo in movimento le potenze del sacro: la tradizione finí, quando il parroco, negli anni del secondo dopoguerra, dopo aver rifatto la pavimentazione alla chiesa dell’Annunziata, la fece trovare chiusa, ad evitare che battessero a terra le pertiche. Altra analoga usanza propiziatoria della primavera era quella dei pirnàcchji, che i ragazzi lanciavano in aria, quasi a incoraggiare la natura a prosperare nella crescita.
Fino agli anni dell’immediato secondo dopoguerra era molto sentito il «Carnevale», quando, oltre alle maschere – a volte le donne indossavano ancora gli abiti tradizionali (le pacchiane) –, sfilavano i mesi: in questa circostanza gli attori, in sella ad asini e cavalli, recitavano in dialetto sapide strofette in vernacolo nelle piazzette dei vari rioni. La tradizione fu ripresa nella prima metà degli anni Settanta e qualche altra volta negli anni Ottanta; ma ora sarebbe impossibile ripristinarla per la mancanza di asini, sostituiti dai contadini coi mezzi agricoli.
Altro appuntamento annuale, in occasione della Quaresima, che seguiva al Carnevale, erano le Quarant’ore, quando veniva esposto il santissimo Sacramento anche nelle cappelle che ora restano sempre chiuse, come quella degli Acciari, nei pressi del palazzo omonimo, vicino la parrocchia di San Pietro. Il Giovedì Santo resiste la tradizione della visita ai sepolcri nelle parrocchie, che fanno a gara nel presentarli scenograficamente coi vasi di grano fatti germogliare al buio; il Venerdì Santo in Santo Stefano si celebravano le «tre ore di agonia» e poi si portava in processione il Cristo morto. A primavera si benedicevano le campagne durante «le Rogazioni».
Due tradizioni arcaiche, a Sala, sono rimaste tra le ricorrenze legate al ciclo dell’anno agricolo e pastorale, primavera/autunno; l’ascesa al castello della Madonna della Consolazione, più nota come Maronna ri Castiéddu, il lunedì in albis, quando si assiste allo «sparo del gallo» poco più sopra della chiesa di San Leone, la più antica del paese, e quando la statua scende in autunno nella Valle dall’altro versante, la seconda domenica di settembre: si vede un bel gallo legato in un cerchio di botti che sparano mentre viene calato dall’alto lungo una fune verso il basso, a simboleggiare la fecondazione dell’uovo cosmico della natura che annualmente si rinnova con la vegetazione.
Un rito analogo si ripete per San Michele: l’8 maggio viene portato in processione al Santuario sul monte, accompagnato dall’angelo, che una volta effettuava il volo nei pressi della chiesetta della Madonna di Loreto; il percorso richiama la medievale presenza bizantina, a Sala come nel resto del Vallo: la cappella di Costantinopoli, prima e la cappella di Loreto (lauretum, da laura bizantina, appunto), poi; infine l’eremo di San Michele, dove viveva l’eremita, l’affiértu.
La mattina del 29 settembre, quando, la processione giunge e sosta nella piazzetta di Sant’Eustachio, si assiste al «volo dell’angelo». Questa usanza, una volta praticata anche in altri paesi del Vallo di Diano, oggi continua ancora inalterata solo a Sala Consilina, dove la sera della vigilia «l’angelo sulla barca», portata a spalla, attraversa il paese a ritroso rispetto al percorso della processione del Santo il giorno della festa. L’arcaicità precristiana del rito è testimoniata dalla mancata presenza del clero. Sia durante il volo sia nelle soste rionali, l’angelo, ritto sulla barca, recita davanti alla statua di San Michele (canta, per usare il termine della tradizione popolare) alcuni versetti, offrendo un mazzo di fiori, incenso e un cero. Davanti alla chiesa dell’Annunziata la barca viene spinta tre volte avanti e indietro, per imitare le onde del mare o, più verosimilmente, per mettere in moto la potenza della fecondità al caputiémbu (nuovo inizio del ciclo annuale), quando la natura si assopisce per risorgere a primavera. Nella tradizione sono rimasti alcuni tratti della simbologia medievale, che richiamano a loro volta riti ancestrali: l’angelo nocchiero, nel Purgatorio di Dante, mette in relazione il mondo dei vivi con quello sotterraneo dei morti, separato dalle acque, da cui proviene la ricreazione della natura a primavera. Altra usanza pagana legata al mondo agricolo è quella dello sparo di lu viécchju e la vècchja (“il vecchio e la vecchia”: due fantocci di carta che vengono fatti girare su una ruota munita di petardi), a significare l’anno vecchio (lu viécchju e la vècchja sono, non a caso, voltati di spalle tra loro, ad indicare l’ormai esaurita funzione sessuale fecondatrice). Altra usanza è la salita al paliu, il palio della cuccagna, un palo cosparso di grasso, in cima al quale è posto un premio costituito da un fiasco di vino e qualche caciocavallo o altra roba mangereccia.
Il nuovo anno veniva una volta salutato con la luce del minàrïu (falò), una grossa catasta di legna e frasche messa insieme per lo più dai ragazzi, che veniva accesa in prossimità del Natale, il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, nei vari rioni: quando restava solo la brace i ragazzi vi saltavano sopra e gli adulti vi arrostivano patate; un momento di gioia collettiva, che faceva sentire intensa l’attesa del Natale.
La festa principale resta ancora quella del protettore San Michele, che dura tre giorni: il 28, il giorno della fiera, una volta rappresentata soprattutto dalla vendita di derrate agricole e da un gran numero di animali; il 29, la festa per eccellenza; il 30, con la serata destinata a un cantante di fama. Il 17 maggio si porta in processione sul santuario lu cindu, una struttura quadrangolare di ceri; dopo la messa, si esce dalla chiesa per una porta laterale e, al canto dello Splendor si compiono tre giri intorno al cappellino, la parte più antica del santuario; si toglie dal cinto lu cirínu, cioè la matassa di un lungo spago passato nella cera e lo si dispone in tre volute lungo la linea di gronda del cappellino; il vecchio cerino, una volta messo giù, viene distribuito in piccoli pezzi ai fedeli, che li conservano per accenderli durante la tempesta, con la credenza di poterla allontanare.
Il 16 dicembre si onora ancora San Michele «di penitenza», in memoria del terremoto del 1857, dal quale i salesi si sentirono particolarmente guardati rispetto alle tante vittime dei paesi vicini. Il giorno dell’Epifania, quando si credeva che i morti girassero in processione per il paese, nel santuario di San Michele sul monte è usanza effettuare la calàta «della stella»: una stella di legno a cinque punte con lampadine viene fatta scendere lungo una corda dalla cantoria fino all’altezza dell’altare per tre volte consecutive durante la messa, celebrata quando è ancora buio; anche qui la corda segna il confine tra la vita e la morte, tra l’anno vecchio e l’anno nuovo. Al ritorno dal monte è consuetudine andare a visitare i morti al cimitero.
Una volta, prima della guerra, la festa più solenne era quella del Corpus Domini, oggi solamente religiosa: le strade del centro storico, al passaggio del Santissimo, nel prezioso ostensorio d’argento che esce tuttora dalla parrocchia di San Pietro, era preceduto da file interminabili di bambini vestiti da angioletti e paggetti e da ragazzine vestite con l’abito bianco da verginelle, mentre nel centro storico si faceva a gara nel pavesare le case con le coperte di seta più belle e col lancio di petali di fiori. Dal 1991 lungo il corso Vittorio Emanuele e Piazza Umberto I si snoda una straordinaria infiorata, a iniziativa del fotografo Antonio Arpea sul segno d’una tradizione più semplice.
Altra devozione popolare è quella del pellegrinaggio a «Sito Alto» (la Sitàuta), il martedì dopo Pentecoste, quando ricorre anche la Madonna di Costantinopoli, e la vigilia del 15 agosto per la veglia notturna: il lungo e faticoso cammino è ripagato dalla straordinaria visione circolare che si gode sulla vetta, a 1467 metri, da dove lo sguardo, nelle giornate senza foschia, può allungarsi sui tre mari: Tirreno, Adriatico e Ionio.
Il 22 maggio, giorno di Santa Rita, nella chiesa di Santo Stefano, dopo la messa si distribuiscono le rose alle donne, che le conservano per devozione fino all’anno successivo. Altra festa puramente religiosa, con processione, è quella della Madonna del Carmine il 16 luglio, nella chiesa di San Pietro. Prevalente carattere religioso ha pure la festa di San Francesco il 4 ottobre, anch’essa in Santo Stefano, con la processione, che una volta si recava in campagna, a Trinità e Sant’Antonio, quando le due contrade non erano come oggi urbanizzate.
Feste rionali sono quella della Madonna delle Grazie in Piazzetta Gracchi, una volta il 2 luglio da alcuni anni la prima domenica di luglio, di San Rocco, l’ultima domenica d’agosto, della Madonna del Monte l’8 settembre, di San Raffaele, il 24 ottobre; e ancora, della Madonna del Latte a maggio, dell’Immacolata l’8 dicembre, in Sant’Eustachio, di Sant’Antonio il 13 giugno, di San Sebastiano l’ultima domenica di aprile e della Santissima Trinità secondo la cadenza liturgica. Molto frequentata da tutto il paese è la chiesa di Sant’Eustachio (Sandu Stàsïu) il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, protettrice della vista.